Testo di Domenico Porzio
Quando nel 1953 Elio Vittorini pubblicò nella collezione di letteratura «I gettoni» (Einaudi) i dieci racconti di Sagapò dell’allora trentottenne, e ai più sconosciuto, pittore trevisano Renzo Biasion, precisò nel risvolto editoriale che quelle “cronache della guerra di Grecia” (‘41-‘43), solo per via indiretta e subordinata, narravano della guerra combattuta dai soldati, sergenti e ufficiali, incaricati di “rompere le reni” al popolo greco. In via diretta, secondo Vittorini, l’autore raccontava, invece, «di come accadeva ch’essi si procurassero, di là della realtà artificiosa imposta loro, quel minimo di realtà naturale che sempre un soldato (o chiunque si trovi in un analogo stato di coercizione) cerca di procurarsi per riuscire ad essere ancora un uomo e ad amare e soffrire umanamente, e avere fierezza d’uomo, umiltà d’uomo, illusioni d’uomo». Erano questi interessi di Biasion, precisava, a garantire della «Sua interezza di scrittore, realista, ma non di intenti funzionali». …Il polittico greco di Renzo Biasion si delinea oggi come una delle opere più intenzionalmente narrative suggerite a uno scrittore dalla sua casuale vicenda di guerra: la drammaticità delle circostanze, la miseria e lo squallore che queste trafiggono, non scalfiscono mai la felicità liberatoria del raccontare, il piacere di tradurre le cose viste in immagini, la quotidianità sofferta in metafore, la vicenda aspra e patetica di quel vivere coatto e provvisorio in gioia di immaginazione: pochi libri di guerra sono, come questo, così avvinti alla fisicità dell’amore e celebrano con altrettanta partecipazione visiva, olfattiva e tattile, la bellezza della natura. Una “fisicità” che poco ha a che vedere con i canoni del neorealismo: perché è testardo strumento di esorcismo e di confutazione nella luciferina empietà di quella situazione esistenziale.
Renzo Biasion di vocazione è pittore. Nacque (Treviso 1914) addirittura con la matita e i colori in mano, se a sette anni meravigliò il maestro delle elementari con un grande foglio sul quale aveva ritratto tutti i compagni di classe e se a dodici già aveva eseguito il primo ritratto ad olio della madre. Vocazione allarmante, la sua, in una famiglia di piccoli commercianti e che il padre tentò inutilmente di scoraggiare: durante un’assenza da casa del figlio adolescente, usò tutte le tavole e i telai da lui dipinti per costruire, nell’orto, una gabbia per i conigli. L’ebbe vinta, ovviamente, la testardaggine del ragazzo, che eluse le speranze paterne di averlo nel commercio: interrotti gli studi universitari, si iscrisse al Liceo Artistico di Venezia e, a poco più di venti anni, era professore di disegno nelle scuole industriali di Feltre. Nel 1940, poco dopo la sua prima personale di “ritratti” e di “interni” a Venezia, scoppiata la guerra, viene chiamato sotto le armi col grado di sottotenente di fanteria: la sua avventura militare dura sette anni e rimarrà l’esperienza fondamentale della sua vita. C’è da credere che nel suo zaino ci fosse più spazio per matite, boccette d’inchiostro e fogli da disegno che non per munizioni e scatolette di carne. Sul fronte greco-albanese, dove è comandato, disegna dal vero i soldati e tiene un diario. Scendendo in Grecia e poi nel Peloponneso, completa su fogli bianchi («il foglio bianco – dirà più tardi – non ammette scherzi») una serie di bambini così come li vedeva, laceri ed affamati, e, senza saperlo, precedeva, se non altro per la scelta dei soggetti ed il nitido pathos con cui li registrava, la poetica – a lui del tutto estranea – del neorealismo. La macchina bellica lo trasporta nell’isola di Creta e lo colloca, aggregato ai tedeschi, comandante del presidio di Kalò Koriò, Prina e Melesseri. Anche nell’isola, straziata dai bombardamenti tra aride pietraie e mare, l’ambidestrismo (disegni e diario) non lo abbandona. Invia una serie di paesaggi cretesi al “Giornale di Roma”, che si stampava ad Atene; il direttore del quotidiano, Paolo Cesarini, ricorderà (nel 1966,
presentando una mostra di Biasion) una visita del sottotenente pittore alla sua redazione: «Era uno dei più scalcinati ufficiali che avessi incontrato, la sua divisa era così scolorita che rasentava il bianco, gli stivali erano sformati e nell’insieme sembrava un guardacaccia». Di ritorno da uno dei suoi viaggi ad Atene, dove era andato a rifornirsi di tela, pennelli e colori per incarico di un generale che ambiva ad avere un grande ritratto ad olio con una simbolica faina ai suoi piedi, lo scalcinato sottotenente commise l’errore di distribuire ai soldati disagiati il carico di liquori e di generi di conforto che aveva ritirato per conto della mensa ufficiali: lo punirono dandogli il comando di un plotone aggregato alla difesa dell’aeroporto di Iraklion. Non se ne disperò; nella nuova collocazione, a parte i trisettimanali bombardamenti della RAF, aveva assai più tempo libero da dedicare alla carta e alle matite. La verità, di cui consciamente prendeva possesso disegnando, era quella «di amore e di fratellanza verso il popolo vinto, sintetizzata nelle più inermi vittime della guerra: i bambini». Più tardi, in un catalogo, dichiarerà che «nonostante questa mia partenza di condanna e di rivolta verso un certo ordine di cose io, tuttavia, in seguito non aderii al movimento realista, parendomi troppo velleitario, retorico ed inquinato dalla politica». Le stesse ragioni, insieme di pudore e di orgoglio, lo convinsero a mantenere le pagine di Sagapò estranee al gioco dei manifesti letterari che caratterizzarono la narrativa del dopoguerra. Alla serie dei “bambini” seguirono quelle delle “prostitute” e dei “catafìgi” (le incredibili catacombe scavate nel tufo dai cretesi senza casa per scampare ai bombardamenti e per sopravvivere): temi ed ambienti che ritorneranno nei racconti. Dopo l’8 settembre i componenti della divisione Siena, di cui faceva parte anche il battaglione di Renzo Biasion, furono trasferiti dai tedeschi, dopo un lungo viaggio attraverso Grecia, Bulgaria, Ungheria, Austria e Germania, nei campi di prigionia di Olanda e Polonia: nei Lager di Biala Podlaska e di Norimberga continuò a disegnare e a scrivere un suo diario, che pubblicò poi nel 1948 (Tempi bruciati, edizioni della Meridiana, con illustrazioni dell’autore). Già in queste pagine che, almeno in parte, serviranno da spunto per i racconti di
Sagapò, si nota una singolare frattura tra l’uomo immerso in una durissima esperienza e lo scrittore che la consegna alla propria memoria: la penna, infatti, sorvola o appena registra i patimenti della fame e del freddo, le umiliazioni fisiche e morali; indugia, piuttosto, sull’aneddotica psicologica e sulla reazione dei caratteri nella stretta della prigionia; poche righe per il pane rancido e scarso che egli divide a fettine con i compagni e che abbrustolisce sul fuoco; appena balenante l’immagine degli ufficiali in cerca di mozziconi di sigarette tra i rifiuti ed il letame; ma un’intera pagina è dedicata alle foglie che il vento stacca dagli alberi e porta sui reticolati; foglie raccontate come se le disegnasse, con un’attenzione avida, golosa: «qualcuna cadeva nel groviglio e, rivolta verso l’interno, mostrava scoperto tutto un sottile incrocio di venature, simili al palmo di una mano solcato da linee… mentre alcune, restando in bilico su qualche ramo o sull’incrocio del reticolato, pareva volessero intridersi fino all’ultimo di sole, prima di dissolversi nell’ombra sottostante».
La sera del trasferimento dal campo di Biala Podlaska (sarà un viaggio infernale, durato quattro giorni, tra freddo, umidità e caos) annota: «Domani partenza. È un tramonto bellissimo. Il cielo nessuno ce lo può togliere». Sta in questo spontaneo distaccarsi dal contingente, tesaurizzandone tuttavia i segni essenziali che sono sempre di luce e di colore, la capacità di Biasion (clamorosa nel polittico di Sagapò in rapporto all’economia dei mezzi espressivi e stilistici) di organizzare sulla pagina profondissime prospettive nelle quali gli episodi, anche drammaticamente
salienti, sembrano accadere in una sorta di silenzio metafisico, i personaggi configurarsi più coi gesti che col dialogo (assai ridotto e spesso indiretto) e la cronaca organizzarsi in una quasi assoluta assenza di sonorità, affidata invece alla suggestione visiva e cromatica. Scrittura e pittura si mescolano in un’operazione che rifiuta di essere estetica per farsi magica mediazione tra l’ostilità del mondo e la nostra comprensione.
La vicenda biografica di Biasion dopo la prigionia, il ritorno in Italia, la partecipazione alla guerra partigiana, è in prevalenza pittorica: insegnante di disegno nelle scuole del Veneto e altrove, fino all’attuale cattedra di figura al Liceo Artistico di Firenze. Nel contempo pubblica Tempi bruciati e Sagapò; collabora a quotidiani e scrive di critica d’arte sul settimanale “Oggi”, al quale tuttora collabora. Si trasferisce a Bologna, dove ha studio, ed infittisce la sua presenza in mostre singole e collettive, evolvendo uno stile personale che ambisce ad inserire in una visione moderna della vita la grande lezione dei maestri veneti e toscani del ‘400. Accanto al pittore sussiste un incisore di straordinaria sensibilità e perizia. L’artista figurativo ha ottenuto consensi in patria e all’estero e numerose sono le monografie dedicate alla sua opera di pittore e di grafico.
Sagapò è un libro “unico”: le ragioni che lo hanno maturato e determinato pongono radici in un’esperienza per lo stesso scrittore irripetibile. È un libro unico come lo sono Cristo si è fermato a Eboli, del pittore scrittore Carlo Levi, Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, Se questo è un uomo, di Primo Levi: opere scaturite da una necessità di testimoniare, la cui giustificazione si è riconosciuta anche letteraria; libri conclusi, che solo ammettevano corollari o aggiunte di dettagli. II silenzio che Biasion ha fatto seguire a Sagapò non è un voto di silenzio gidiano. La sua consapevolezza lo ha messo sull’avviso: il libro era nato in un momento di dislocazione totale della sua vocazione; lo ha convinto il suo mestiere di pittore, persuadendolo ad un impegno quotidiano, la cui manualità meglio si confaceva al suo scontroso pudore, sottraendolo all’esercizio scritto di una loquacità che non appartiene al suo carattere. Sagapò è un libro di guerra, contro la guerra: ma l’orrore, la stupidità e la volgarità dell’evento non stimolano una requisitoria a forti tinte, rifiutano l’uso di una materia descrittiva spessa e violenta; i quadri che esemplificano il meditato polittico ricorrono a una materia scarna, stemperata su di un disegno portante di accurato rigore compositivo. Le “res gestae” suggeriscono acqueforti colorate, di sapore popolare, e tuttavia con dettagli di preziosa eleganza: il lieve, sapiente bulinare sui particolari trascura sia il facile pittoresco, sia l’ovvio espressionismo. La serie tutta consequenziale delle predelle evita l’enfasi, rifugge ogni dilatazione dell’essenziale. Qui l’orrore della guerra semplicemente prorompe dall’esistere della guerra; il sopruso è prima morale e poi fisico: sta nell’umiliazione della vita e poi nella distruzione della vita, urla più nel silenzio delle miserie che nel fragore delle armi. Il filo che unisce il rosario dei personaggi, militari e civili, uomini e donne, soldati e prostitute, e lega questi agli ambienti e al paesaggio, è un filo di pietà, la cui dimensione è laica ed umanistica: l’estensore è un intellettuale che usa la propria cultura e sensibilità per mettersi dalla parte delle vittime, per accertare che vincitori e vinti, italiani e greci, scontino un’eguale condanna alla disumanizzazione. Nello scempio e nella volgarità di un’esistenza degradata fino allo stremo, tutto ciò che in qualche modo trattiene un valore di vita e di libertà sopravanza il resto e squilla di una corposità tattile. La dolorante corte dei miracoli è permeata da una sete di felicità pagana: questa miserabile umanità, crocifissa dalla nostalgia, imbestialita dalle privazioni, riesce a sciogliere un suo inno alla gioia, alla fratellanza ed all’amore; la sua innocenza riconosce anche nella più squallida prostituta una persona il cui uso non vieta la nascita di un colloquio o di un sentimento capace di esaltare fino alla follia.
A tutto sovrasta l’imperturbabile bellezza della natura, la sua solare indifferenza. L’ambidestrismo dell’autore inserisce nelle pagine una godibilità visiva che trascina nel racconto partecipanti cieli d’ogni gradazione cromatica, spiagge e scogli, ulivi ed agavi tormentati dal vento, acque marine ricordate in ogni trascolorazione, glorificati boschi di carrubi e di sterpi, fulminanti voli di anatre e di pernici. Biasion non perde occasione nel segnalare la spettacolare tavolozza che l’attornia: «le crete gialle o bianche che spezzettavano la montagna col loro chiaro colore», «l’airone bianco simile ad un’ampia vela nel cielo», «il sole che si tramutava da giallo in rosso e poi in un violetto cupo che permaneva nell’aria anche dopo la sua scomparsa», «il ritmo del paesaggio chiuso in un cerchio col veliero bianco al centro», «la luce che diventava densa, quella luce dorata dei mari d’oriente che rende tutte le cose per un attimo eterne e preziose», «una zona impervia che il sole del tramonto, sfiorando le rocce, tingeva di un colore rossastro, striato di giallo come quello dei melograni maturi». Da questa solarità, dalla folgorante e intatta presenza della natura, gli elementari uomini, offesi e abbrutiti dalla guerra, sembrano trarre una ragione per resistere al male e per riconoscersi partecipi alla vita: «passò un volo di anatre selvatiche, l’aria si fece fresca, rianimando gli uomini… Una felicità di vita assurda in quel luogo pareva pervadesse tutto il creato». Qualità assai visibile in questo narrare è la scioltezza con cui le immagini e i caratteri si depositano sulla pagina; ma nel processo vi è poco di istintivo: l’elegante semplicità del racconto è frutto di meditata distillazione, nel senso che non vi è nulla di naïf, di domenicale, nella nitidezza che ritaglia i personaggi e gli ambienti. La tenera concretezza con la quale Biasion ci restituisce un volto o un paesaggio scaturisce da «una presa di possesso della verità», è un’operazione dell’intelligenza e non dell’istinto. Il pittore ha dichiarato a proposito dei suoi quadri, di attenersi, dipingendo, all’affermazione leonardesca secondo la quale la pittura è cosa mentale; il narratore, coscientemente, si è valso della stessa regola. Rileggendo dopo vent’anni le pagine di Sagapò, stupisce la constatazione, in esse, di una quasi totale assenza di occasionalità: la datazione dei fatti, ’41-’43, non è necessaria, risulta illusoria. Il catalogo di dolori e di miserie da cui lo scrittore riceve la provocazione narrativa non lo coinvolge; la sua lucida e prensile attenzione lo registra, ma insieme lo allontana nel vasto e illimitato tempo della fantasia. Così questa testimonianza su cose viste e vissute si libera da ogni temporalità, da ogni contingenza realistica e declamatoria per assumere una figuratività distaccata, per tramutarsi da cronaca in storia, da aneddoto in favola.
(Dall’introduzione di Sagapò, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, marzo 1975 – Collana Oscar –
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