Antologiche dei 100 anni

La copertina della monografia curata da Edi House in occasione dell'antologica dei 100 anni dalla nascita, al Magi'900 di Pieve di Cento (Bo)
La copertina dell’ultima monografia a cura di Valeria Tassinari e di Edi House in occasione dell’antologica dei 100 anni dalla nascita, al Magi’900 di Pieve di Cento (Bo), settembre-ottobre 2014

Interno/esterno con colori.

Racconti di un narratore silenzioso.

«Il mio binario è invero più semplice: Piero della Francesca, Bellini, Vermeer, Canaletto, Hiroshige, Hokusai, Utamaro – asse portante il disegno, assai più del colore – e la vita, l’aspetto visibile del mondo, filtrato dalla mente non per intriderlo di nostalgia, ma per placarne le oscure e contraddittorie forze nell’astratta fermezza della contemplazione».

Renzo Biasion

Il silenzio, il mistero sospeso delle figure, l’armonia segreta della composizione. La luce, capace di indagare i luoghi, la mente, che filtra la visione, la disciplina rigorosa della contemplazione, a lungo esercitata per controllare il sentimento. E, a delineare il tutto, il segno che, meglio del colore, trascrive la vita distillandone le forme: in quattro righe, c’è il racconto di una lunga storia d’artista, che merita di essere ricordata.
Per un sensibile narratore come lui, raccontarsi non doveva essere difficile, ma la lucida semplicità con cui queste poche parole di Renzo Biasion tracciano le linee guida del suo percorso poetico appare tanto sincera quanto meditata, così da ricordare lo stile dei suoi disegni, quelli in cui, di fronte ad un soggetto già tante volte indagato, il contorno nitido e sicuro coglie la sintesi finale del vero, con una leggerezza fresca e lapidaria.
Sedia RossaIl vero, per Biasion, è stato una fonte di ispirazione irrinunciabile, un universo di figure di fronte al quale le seduzioni dell’astrazione – cui pure, come molti suoi coetanei, si è per un breve tempo rivolto – hanno perso quasi subito di interesse. Quando dipingere l’astratto appare troppo facile e ripetitivo, così come pareva a lui, significa che le corde profonde dell’io suonano solo con un altro vento e che, non comprendendo o non volendo assecondare il senso dell’arte aniconica, è più appagante cercare visioni fragranti di strada e di casa, di fiori in vaso o di incarnati pallidi, di mare agitato o di periferia sonnolenta. Di quegli umori, che si fanno colore, atmosfera, respiro, polvere o distanza, Biasion amava raccontare le storie quasi senza eventi, racconti trattenuti sotto l’apparenza del mondo.
Narratore di talento, con le parole, lo era stato fin da giovane, e il romanzo Sagapò ne è prova, ma prima e dopo era stato soprattutto pittore, per formazione e vocazione, e dentro la pittura anche incisore, traslando nel segno inciso la sua grande attitudine per il disegno, l’altro strumento del narrare.
Disegnava, dipingeva e scriveva, Biasion, passando con facilità dall’essenzialità narrativa del bianco e nero al trasporto descrittivo del colore.
Praticava la scrittura e le arti visive con un afflato di reciprocità che appartiene a pochi e, quando lo si possiede, è un dono che spesso viene tenuto quasi segreto, per lasciare scorrere separati i destini: da un lato la scrittura, che, quando trova i giusti sbocchi editoriali, raggiunge con più facilità un ampio pubblico, regalando notorietà; dall’altro l’arte, che si muove sempre in un contesto più ristretto, tra lo studio e le mostre, tra interno e esterno, in una dimensione più intima e custodita. Si pensi, tra gli intellettuali del suo tempo, a Carlo Levi o a Cesare Zavattini, la cui notorietà letteraria ha parzialmente tenuto nell’ombra la loro più profonda ispirazione di pittori.
Narratore autenticamente ambidestro, come opportunamente lo ha definito Domenico Porzio sottolineando la complementarietà dei linguaggi nel percorso espressivo dell’artista, Biasion ha invece apertamente scelto e amato la pittura come lingua prima, sedotto forse da quei silenzi, da quelle lunghe parentesi di inazione, da quel perdersi nella contemplazione che la scrittura, costretta invece a costruire l’azione, non gli poteva concedere troppo a lungo.
FinestreACosì la sua è stata soprattutto una pittura di scenari, di possibili orizzonti di eventi forse già o forse non ancora accaduti, in una continua dialettica tra interno ed esterno, spazi chiusi e luoghi aperti, che è la sua cifra stilistica più riconoscibile. Una dialettica, per certi versi, emblematica della sua generazione che – già attiva tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, e perciò tesa e inarcata come un ponte sull’abisso del regime e della guerra − aveva vissuto il contrasto tra vita privata e vita pubblica con una sensibilità inevitabilmente ideologica. Per tanti intellettuali, infatti, la rappresentazione degli interni era la metafora di una scelta di vita appartata, autoreferenziale e defilata, vissuta nella polemica impossibilità di appartenere al presente; mentre l’affrontare la visione dei luoghi pubblici, e in particolare delle città e delle periferie, rivelava una maggiore propensione all’impegno attivo, dichiarando il desiderio di prendere posizione rispetto alla società contemporanea.
Ecco perché, sebbene nulla del repertorio classico della pittura manchi all’appello dei generi affrontati da Biasion, sono le periferie e gli interni dello studio i luoghi emblematici del suo cammino. Qui, senza dubbio, si esprime, in tutto il suo silenzio, la sospensione del respiro, una rarefazione del sentire che pure aleggia anche sui ritratti imperturbabili, sui nudi intoccabili, sulle nature morte composte e sui paesaggi addolciti di lontananze, ma con minor mistero.
Mistero dell’estraneità, che, invece, rende toccanti e indecifrabili le periferie, con quelle architetture banali di case di ringhiera, quell’assenza di persone, che forse tuttavia sono lì, nei vani che inghiottono l’ombra dietro ai balconi, nei grigi velati di pervinca delle facciate torinesi, o nei rossi dolcemente dialettali di Bologna, nel vasetto di erbette smilze per gli aromi di cucina, nella tenda allungata sulla ringhiera ad ombreggiare il tavolo, dove qualcuno che non vediamo starà probabilmente condividendo un pasto, a finestra aperta, raccontandosi la giornata. Viste dalla strada, le finestre delle case sono enigmi aperti sulla vita degli altri.
Oppure mistero dello sguardo, che tante volte ripercorre come in una ripresa in soggettiva le inquadrature degli interni, varca le soglie, entra nello studio per cercare indizi, scorre le pareti ordinatamente scandite da piccoli quadri per leggerle come diari di un’esistenza sfuggente, sfiora i pennelli, il libro aperto, il cappellino cinese, il vasetto sfiorito, cercandovi un’inflessione sentimentale, un cedimento emotivo rivelatore.
Poltrona_studioSono molto suggestivi questi interni, accesi del colore che era stato dei Fauve, composti come set cinematografici, a volte giocati sulla sintesi geometrica fin quasi a rasentare l’astrazione, ma senza mai scivolarvi. Sono gli spazi vuoti dell’esistenza, dove anche una poltrona vuota è una protagonista, una presenza forte ammantata nel suo segreto di velluto, da ritrarre con precisione, magari con un vasetto di fiori di campo in grembo. Sono le piccole stanze dell’artista, dove nella solitudine si può mettere in posa persino un quadro, per riguardarlo, rappresentarlo di nuovo, a distanza di tempo, e ritrovarvi una ragione plausibile. C’è un’acquaforte degli anni Settanta che rappresenta il dipinto di una casa di periferia: un quadro di medio formato, appoggiato su una sedia impagliata, come se fosse uno specchio, in cui l’artista ha voluto riflettersi per rivedere non il proprio volto, ma il proprio sguardo, ciò che un tempo aveva scelto di guardare. Nella compostezza immobile della combinazione tra interno e esterno, un autoritratto sarebbe stato meno esplicito.
Sono, questi, gli interni dove, ad una certa ora del giorno e della vita, si chiudono le porte della notte, l’ora in cui le finestre inquadrano il buio e non ha più senso affacciarsi, quando il nero chiama solo il bianco, in un gioco di rispecchiamenti. Viste dall’interno, le finestre sono il confine tra il sé e il mondo, e qualche volta possono essere molto oscure.
«Il primo quadro fu una finestra aperta sulla notte, l’esatto contrario di Matisse» ha scritto una volta Biasion, raccontando delle sue Notti.

Introduzione al catalogo di Valeria Tassinari, curatrice della mostra.

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Inaugurazione dell’antologica 2014: da destra Giulio Bargellini, Presidente Magi’900, Valeria Tassinari, curatrice artistica e selezionatrice delle opere esposte, Giulio Biasion, curatore della monografia e degli eventi svoltisi.

 

 

 

 

 

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1 Renzo Biasion, Scritti, 1972.
2 Domenico Porzio, Introduzione a Sagapò, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1975.

 

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