Venezia lontana
Mio padre è nato a Venezia, i miei nonni sono nati a Venezia. Mia nonna era una Drago. Un mio antenato combatté gloriosamente a Lepanto. Il “gloriosamente” lo metteva mio padre, forse metteva anche l’antenato guerriero. Io sono nato in terraferma perché mia nonna, rimasta presto vedova e ridottasi in povertà, non volle vivere da povera dov’era stata ricca e trascinò gli orfani a Treviso. Era stata una donna prepotente, bella e sconsiderata. Mio padre non le perdonò mai d’averlo tolto giovinetto dall’Accademia di Marina, facendo di lui uno spostato anziché un marinaio. La passione del mare gli era rimasta così forte che mi portava , da bambino, a Venezia, dove un amico gli cedeva per pochi soldi una barca a vela e con quella si arrivava alle isole, e perfino a Chioggia. Che giornate. Venezia, la città amata e odiata, si dissolveva a poco a poco in vapori argentei. Mio padre s’attaccava a una bottiglia di bianco e poi cantava, con una voce forte, calda. La voce correva sulle acque, nel gran silenzio della laguna. Smesso di cantare, e di ridere, e di scherzare spruzzandomi d’acqua col remo, imprecava contro i parenti veneziani.
Dormivamo nello stesso letto, a Burano, a Malamocco, a Chioggia. E mentre lui russava io sognavo imprese memorabili.
A diciott’anni conobbi, per caso, il pittore Juti Ravenna. Vide i miei lavori – dipingevo dall’età di quattordici anni – e m’invitò a frequentare il suo studio. Così lasciai Feltre, dove avventurosamente era approdata la mia famiglia, e mi stabilii a Venezia, in casa di due ragazze bionde e ciarliere, una delle quali, in seguito, sposò mio fratello. Le finestre della mia camera davano sul campo della Maddalena. Ricordo l’occhio di Dio scolpito sul portale del tempio e i colombi che vi si posavan sopra.
Grigio su grigio, e bianco, un’armonia così magica – il canale di fianco, a riflettere un cielo di velluto – che solo Venezia può dare.
Lo studio di Juti Ravenna era uno di quelli forniti dalla Bevilacqua La Masa, situati a vertiginosa altezza sopra le case. Oltre un centinaio di scalini ma s’era poi ripagati dalla visione di una Venezia sconosciuta ai turisti, di tetti, di alta ne, di biancheria e di campanili; una tenera Venezia aperta al vento e alla luce ma nel medesimo tempo segreta e misteriosa come l’interno di una conchiglia.
La cosa che più colpiva nello studio di Juti era una gabbia piena di uccelli esotici, piccoli pappagalli di variati colori, che svolazzavano felici o stavano sornioni e cattivi, attacca ti col becco alle sottili sbarre di ferro della gabbia. Il pittore li curava amorosamente. Io stavo quasi sempre alla finestra. Juti Ravenna era considerato il miglior pittore veneziano, nel suo studio c’erano disegni di De Pisis e di Semeghini e un quadro, non finito, di Gino Rossi. Venivano delle ragazze a posare e si spogliavano nude, ma questo accadeva sempre durante le mie assenze. Il pittore poi mi mostrava i disegni fatti piegando la testa sulla spalla, gli occhi lucidi, commentando non i disegni ma le qualità fisiche delle ragazze. Sentivo nei gesti e nella voce una sensualità che mi indisponeva.
Filippo De Pisis vide un mio quadro in casa di Bassan, medico condotto a Burano. L’avevo dipinto a diciannove anni. Disse che c’era della stoffa. Girai due giorni per Venezia come sul ponte di comando di una nave.
Poco tempo dopo partii per la guerra e quando tornai dalla prigionia in Polonia e in Germania non avevo più voglia di dipingere. Ero cambiato, non potevo più sopportare la marmorea perfezione della città che prima m’incantava, né la sua vita rimasta molle, né il liquido sguardo delle sue don ne. Perché dipingere? Accettai un posto d’insegnante in un piccolo paese di montagna. Lassù, nella più assoluta solitudine spirituale, per liberarmi dall’ossessione della guerra scrissi le duecento pagine di “Tempi bruciati” e i tredici racconti di “Sagapò”.
“Distruggete il ponte della ferrovia” diceva mio padre nei momenti buoni “e Venezia tornerà grande”. Si rideva. Ma quando morì capii che con lui se n’andava un poco dell’antica grandezza veneziana. Sono tornato a disegnare e a dipingere a Venezia ma come un viaggiatore di passaggio, che si ferma per qualche ora e cerca di fissare un ricordo. Forse un giorno riprenderà il colloquio interrotto dalla guerra. Se ne avrò la capacità e la forza. A volte, davanti alle consunte pietre della casa dov’è nato mio padre, ai Frari, mi pare d’averla, e di poter rendergli giustizia riuscendo a dargli quanto gli avevo promesso.
Ma altre volte, quando sono solo, e ripercorro gli itinerari dei miei antichi entusiasmi e delle mie giovanili speranze lo scoramento mi prende, mi sento disseccato e vuoto, un fiore che forse avrebbe potuto splendere ma che la vita implacabile come un mare in tempesta ha sballottato qua e là senza scopo, e ricondotto ormai inerte a rive che muoiono.
Renzo Biasion
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