Arrivammo alla costa dopo sei giorni di marcia. Eravamo sudati, sporchi, stanchissimi. Il mare lo avevamo intravisto due giorni prima, oltre la spaccatura di una montagna: un mare di un azzurro così intenso da sembrare una gemma incastonata tra le rocce. I soldati avevano gridato di gioia perché sembrava così vicino da poterlo raggiungere la sera stessa. Invece il sentiero era disceso all’improvviso, già nella valle, sempre più giù, facendosi a poco a poco un tratturo quasi impraticabile, ogni tanto interrotto da cespi di agavi enormi, che bisognava ogni volta aggirare con gran perdita di tempo. C’eravamo dovuti attendare nel fondovalle.
Ma poco prima dell’alba, quando ancora eravamo immersi nell’ombra lunare, anche se già il sole dava i primi segni del prossimo avvento, una brezza leggera ci aveva portato il suo sentore, che sapeva dolcemente di alga e di sale, e più ancora di tutte le promesse che entusiasmano i soldati, il riposo, il cibo, le donne, la speranza del ritorno.
Invece la costa deluse le nostre speranze. Era aspra, dirupata, priva di alberi. Solo qualche carrubo arso dal sole e tormentato dal vento, piegato fino a terra. La terra era sassosa e di color rosso, qua e là rotta da calanchi di creta gialla. Giù per questi calanchi friabili si calarono i soldati arrivando fino agli scogli. Ma avventurarsi fra quegli scogli fatti come taglienti lame sovrapposte, dentro le cui erosioni la schiuma delle onde si introduceva con bolle che il sole faceva scoppiare, era difficile e pericoloso. Per quel giorno il mare lo guardammo soltanto e ci accontentammo del refrigerio che ci dava la sua vicinanza.
Poi, col trascorrere del tempo, ci sistemammo. I soldati sono come le formiche, che se le porti mille miglia lontano sùbito riprendono la loro attività come niente fosse accaduto. E come esse sono irrequieti e brulicanti, sembrando che il loro lavoro non approdi mai a nulla. Trovammo una minuscola spiaggia al riparo dal vento e riuscimmo a bagnarci. Ben ché le mosche cavalline ci pungessero le carni. Togliemmo le tende dal luogo inospite dove il caso ci aveva condotti e le issammo in cima a un promontorio ventilato, riparandole con muretti di sassi che ci diedero brevi riposi d’ombra. E anche se non riuscimmo a liberarci dalle mosche, che continuarono a sciamare in ogni luogo, formando attorno ad ognuno un alone scuro e fastidioso, si può dire che la nostra vita diventò quasi confortevole. Il mare era tanto bello da dar gioia a guardarlo. Il cielo non mai solcato dalla più piccola nube. E nei giorni che il vento si calmava, benché subito l’afa rendesse i corpi sudati e fiacchi, scaldando le pietre in modo che scottava toccarle, era piacevole aggirarsi tra gli scogli, o sedere nel lungo crepuscolo a fumare le sigarette acquistate di contrabbando durante la marcia.
Di fronte a noi, abbastanza vicina, si vedeva un’isola. Fosse illusione ottica, o il gran desiderio che avevamo di alberi e di verde, quest’isola ci pareva rutta ricoperta da una vegetazione lussureggiante. Come sullo scoglio non c’era acqua, e l’andare a prenderla diventava una vera marcia dovendo ogni volta imbastare due muli, e noi pareva che laggiù l’acqua dovesse scorrere a torrenti. E se c’era una nube nel cielo, si formava sempre sopra quell’isola. Che vidi sulla carta chiamarsi Spinalonga, forse derivando il nome dalla sua forma allungata e puntuta.
Spinalonga si alzava dalle acque con tre punte sottili che la facevano sembrare, nei giorni di foschia, un grande veliero fermo nella bonaccia.
Un veliero sopra il quale dovevano roteare un’infinità di uccelli marini, perché sempre di là provenivano volatori dalle forme sconosciute, bellissimi e bianchi, verso i quali si recavano incontro, quasi a ossequiarli, i nostri piccoli e grigi gabbiani. Restavamo per delle ore a guardarla. Pareva che l’acqua l’aggirasse in un molle abbraccio, carezzandola silenziosamente da cima a fondo, anche quando invece contro la costa infuriava con onde violente e fragorose. E alla base le spume bianche, che si vedevano sotto le tre punte, erano pennella¬ te date con estro a conclusione di un quadro. Mentre le valli scendenti a declivi tondeggianti e verdi davano col loro colore inconsueto, reso morbido e lucente dall’azzurro senza fine del mare, una voglia irresistibile di raggiungerla . Si indovinavano i bianchi dirupi delle tre punte; il grande veliero pronto a partire a vele spiegate. Non pareva esistere per noi felicità pari a quella di poter approdare a Spinalonga, quasi che nelle pieghe delle sue valli si dovesse nascondere il segreto di ogni terrena delizia.
Due volte al mese una motobarca tedesca passava davanti al nostro scoglio e raggiungeva Spinalonga. Partiva da Elunda, lontana forse una decina di miglia. I marinai ci salutavano agitando le braccia, ma non potevano prenderci con loro perché lo scoglio era privo di approdi. Forse per la lontananza non capivano i nostri richiami. O li interpretavano in modo diverso. Ci rispondevano sempre con dei violenti gesti di diniego. Cosicché al ritorno, sembrandoci di vedere la motobarca carica di frutta, lanciavamo al loro indirizzo i più feroci insulti.
Tale era il fascino che esercitava su di noi quell’isola che i progetti per raggiungerla pullulavano. Si pensò perfino di costruire una zattera e munirla di una vela. Era opinione con¬ corde che i marinai fossero mandati a Spinalonga dal comando, che voleva tutta per sé la deliziosa frutta che là si trovava. Il caso ci favorì. Un greco, a nome Andrullacis, venne da me a chiedere un permesso di pesca. Gli domandai se la sua barca era abbastanza grande da poter affrontare la traversata. Disse di sì e l’indomani, estratti a sorte i partenti, la vela della piccola scialuppa si gonfiò al vento dei nostri sogni, balzando sulle tremule onde come sospinta dall’impeto di canzoni guerresche. Come ci si avvicinava a Spinalonga l’incanto, anziché scemare, aumentava. E quel particolare sentimento d’irrealtà si faceva sempre più forte, prospettandoci davanti agli occhi scenari ad ogni momento mutevoli, pieni di quel fascino misterioso di cui è prodigo l’ignoto a chi lo guarda con fantasia di pensieri. I soldati stavano ritti sulla barca e per poter subito approdare s’erano tolte le scarpe, legandole intorno al collo. Il vento ci portò diritti ad un’alta parete di roccia e fummo costretti a bordeggiare. Andrullacis calò la vela e allungò i remi nell’acqua.
Sopra le rocce vedemmo due uomini distesi a terra. Dormivano e non si mossero. L’isola dunque, benché piccola, era popolata. Ma quando giungemmo alla spiaggia, prima ancora di avvicinarci capimmo dagli improvvisi e imperiosi gesti di Andrullacis, che aveva voltato la prua della barca, di che specie di popolazione si trattava. E capimmo anche i gesti di diniego dei marinai tedeschi. Sapevo che il comando aveva rastrellato tutti i lebbrosi portandoli in un’isola deserta. Ma constatare che questa era Spinalonga mi colpiva al cuore. Ordinai al greco di seguire la costa. Sulla spiaggia un gruppo di uomini e di donne ci guardava, forse attendendo che sbarcassimo, o che buttassimo loro qualcosa. Stavano fermi come cariatidi. Poi, vedendoci allontanare, tutti insieme allungarono le braccia verso di noi. Molti avevano ricoperto le piaghe con degli stracci, penzolanti fino a terra. Più oltre scorgemmo un uomo completamente nudo, che al nostro passaggio si rizzò a sedere. Era orribile a vedersi, con la faccia distrutta. Sopra la nostra testa volteggiavano pigramente i meravigliosi uccelli che ogni tanto arrivavano fino allo scoglio. E nei gridi lamentosi che lanciavano anche la loro bellezza diventava illusoria. Quell’uomo, quando passammo, ci sorrise e allora io stesso voltai il timone. Non so dire se Spinalonga ha davvero gli alberi che vedevamo dallo scoglio, la sovranità delle palme e l’aerea grazia degli ulivi. E i verdi prati e le fresche acque che eccitavano la nostra immaginazione. A volte dubito di essere stato vittima, in quei giorni, di tutta una serie di illusioni della mente. Ma quel sorriso anche ora è qui davanti a me, e mi basta chiudere gli occhi per rivederlo.
Renzo Biasion (1953)
©RIPRODUZIONE RISERVATA